Stefania D'Ingeo
Negli ultimi decenni si è assistito al nascere e all’aumentare di gruppi che per il loro uso di tecniche come la manipolazione mentale possono essere definiti Culti Distruttivi. Occorre però fare una distinzione tra un culto distruttivo e un normale gruppo religioso. Infatti nel primo vi è l’uso dell’inganno nel reclutare e mantenere i propri adepti. Viene definito come culto distruttivo un qualsiasi gruppo che metta in atto tecniche fraudolente per il conseguimento dei propri obiettivi, siano essi religiosi o laici (Hassan, 2000). La realtà del culto distruttivo può essere descritta come un contesto dove non esiste alcun rispetto per i singoli individui e all’interno del quale, mediante un processo di controllo mentale, le persone vengono gradualmente condotte a comportarsi tutte allo stesso modo (Hassan, 2000; Santovecchi, 2004).
Le conseguenze del suddetto processo per il soggetto coinvolto possono consistere in una assoluta sudditanza al gruppo, nella perdita della capacità di agire autonomamente e nello sfruttamento a scopo di lucro. Da una prospettiva giuridica si incontrano diverse difficoltà nel riconoscimento dei culti distruttivi. Infatti l’insorgere di nuovi movimenti religiosi ha generato negli ultimi anni spesso una paura ingiustificata tanto da far parlare di "panico morale" (Jenkins, 1998). Ma in altri casi il rischio potrebbe risultare nella sottovalutazione del problema “culto distruttivo”. Ecco perchè, anche da un punto di vista puramente teorico, i Parlamenti delle varie nazioni hanno attualmente serie difficoltà nel determinare gli spazi per eventuali provvedimenti legislativi (Introvigne e Richardson, 2001). Infatti per i legislatori risulta essere difficoltosa la sanzione in eventuali violazioni dei diritti dell’uomo, in quanto spesso i leader dei culti abusanti riescono a mettere in pratica i loro obiettivi proteggendosi proprio dietro il Dettato Costituzionale che prevede la libertà religiosa e la libera espressione del pensiero (Bini e Santovecchi, 2005).
Quindi se da una parte esistono nuovi movimenti religiosi che hanno tutto il diritto di professare ed esprimere il loro credo, dall’altra parte non si può ignorare su quel numero tutt’altro che povero di ex-adepti e familiari di adepti che dichiarano l’esistenza di un grave problema sociale. In Italia in relazione alle sette religiose o culti distruttivi è stato messo a punto nel 1998 un rapporto della Polizia Italiana per uso interno della stessa e dei Servizi Segreti. In questo rapporto si cita l’articolo 603 del codice penale italiano del 1930 in cui si tratta il reato di plagio. Con questo termine veniva descritto l’atto di sottoporre una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione. Dal 1981 l’offesa di plagio è stata dichiarata incostituzionale. Prima di arrivare all’abrogazione dell’art. 603 però sono state emesse alcune sentenze, negli anni ’56-’57, in cui si affermava che perché potesse sussistere il reato di plagio, fra i soggetti coinvolti, doveva esistere un rapporto di padronanza, di dominio e di potere, affinché la vittima risultasse privata della facoltà di volere liberamente e di autodeterminarsi (Soper, 2001).
Solo nel 1961 la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza dove si sottolineano gli elementi costitutivi del reato di plagio in relazione all’aspetto psicologico dell’individuo. Si individuava nel plagio la instaurazione di un rapporto di soggezione della vittima al soggetto attivo, in modo che essa risultasse sottoposta al potere del secondo con completa o quasi integrale soppressione della propria volontà. Nel 1968 un intellettuale fu accusato di aver ridotto in totale stato di soggezione due giovani dopo averne annientato la volontà nella ricerca di un rapporto omosessuale. In primo grado egli fu chiamato a rispondere per il reato di plagio continuato e condannato a nove anni di reclusione (sentenza del 14 luglio 1968), poi ridotti a quattro dalla Corte d’Assise d’Appello con sentenza del 28 novembre 1969, successivamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione (sentenza del 21 ottobre 1971) (La Corte Costituzionale sentenza n.96, 1981). Fu nella pronuncia di secondo grado che il giudice raffigurò il soggetto plagiante come colui che non si impossessava dell’essere altrui per trarne un vantaggio di natura materiale e non mosso da fini di lucro, bensì lo descrisse come colui che assorbiva nell’energia del proprio volere ogni capacità della vittima (Soper, 2001). Dopo l’ultima sentenza che aveva provocato non poche polemiche nel campo giuridico e nel campo medico, si diede inizio a due distinte iniziative legislative al Senato e alla Camera dei Deputati che si conclusero con l’abrogazione dell’art. 603 del codice penale, definendo la nozione giuridica di plagio, respingendo le interpretazioni che configuravano l’azione del plagiante come sostanzialmente e principalmente fisica.
Veniva esclusa la tesi secondo la quale lo scopo di porre la vittima al servizio del plagiante, ricavandone un profitto, costituirebbe un elemento per distinguere il plagio dagli altri reati contro la libertà individuale. Venne così evidenziata come importante per l’esistenza del plagio, l’instaurazione di un’assoluta soggezione del plagiato con una quasi integrale soppressione della libertà e dell’autonomia della persona. Si evidenziò così la difficile applicazione dell’articolo 603 c.p. perché troppo suscettibile agli eventi dei singoli casi e soprattutto perché non suffragata da prove scientifiche di matrice psicologica (Bini e Santovecchi, 2005). Allo stato attuale appare interessante constatare che la libertà religiosa in riferimento all’art. 8 della nostra Costituzione, preveda che gli emergenti movimenti religiosi abbiano determinati requisiti affinché ne avvenga il riconoscimento legislativo da parte dello Stato. Vengono così posti dei limiti al riconoscimento di tali movimenti. Questo non impedisce però ai culti la possibilità di attuare una gestione che prevede l’utilizzo di tecniche manipolatorie al fine di far credere, alle persone che vi aderiscono, di aver mantenuto il proprio diritto alla libertà individuale (Bini e Santovecchi, 2005).
In Italia, il primo firmatario di un Disegno di Legge per l’istituzione di una Commissione Parlamentare di inchiesta sulle sette è stato il Senatore e Sottosegretario alla Difesa Francesco Bosi (UDC) (Disegno di Legge n. 4605, 10 maggio 2000). L’Onorevole, consapevole dell’importanza dell’art. 8, sottolinea tuttavia che non si possono trascurare quei comportamenti che sconfinano in attività illecite, in lucrosi e occulti accumuli di denaro che spesso sfuggono alla fiscalità e che provocano denunce alla Magistratura di danni patiti o di minacce ricevute da chi intende recedere da queste appartenenze (Bini e Santovecchi, 2005).
Successivamente l’Onorevole Valdo Spini (DS) ha presentato una proposta di legge sulla libertà di religione (Disegno di Legge n. 1576, 14 settembre 2001). Tale proposta si pone l’obiettivo di regolare l’applicazione dell’art. 7 della Costituzione (rapporti giuridici tra la Repubblica Italiana e lo Stato Città del Vaticano) e l’art. 8 che descrive la possibilità, per altre confessioni religiose, con regolari requisiti, di stipulare delle intese con lo Stato Italiano. Punto centrale di questo disegno di legge è che tutti hanno il diritto di professare liberamente il proprio credo religioso in forma individuale o associata, di farne propaganda, di esercitarlo in privato o in pubblico, purchè non si contrapponga al buon costume (Bini e Santovecchi, 2005).
Di fronte all’emergere di fenomeni sociali quali, ad esempio, le numerose sette religiose che sempre di più si stanno diffondendo, ci si è resi conto che la già citata abrogazione dell’ articolo 603 del Codice Penale, ha creato un evidente vuoto di tutela all’interno dell’ordinamento italiano (Alfano, 2005).
Per questo motivo si è pensato di prevedere una norma che contempli e sanzioni il reato di manipolazione mentale. E’ il caso del Disegno di Legge n. 800, 6 novembre 2001 del Senatore Renato Meduri (AN) (Bini e Santovecchi, 2005).
In seguito, con la Legge dell’11 agosto 2003 n. 228, pubblicata nella “Gazzetta Ufficiale” del 23 agosto 2003 n. 195, si arriva ad una riformulazione del reato di riduzione in schiavitù, ad un ampliamento del suo ambito applicativo, tale per cui, ora, è compresa all’interno della norma anche la riduzione di un uomo in uno stato di “soggezione continuativa”. Tale legge di fatto riporta in auge quello che era il plagio fino al 1981, ma tacendone la vecchia denominazione. (Alfano, 2005).
Questa legge ha riformato radicalmente gli articoli del Codice Penale inerenti il reato di riduzione in schiavitù e ha ampliato il suo ambito applicativo, tale per cui è prevista ora la punizione per chi abusa della credulità popolare (art. 661 c.p.), per circonvenzione d’incapace (art. 643 c.p.) e per abuso della professione medica (art. 348 c.p.). Quest’ultimo caso si riferisce ai culti dove i leader si propongono come medici o curatori somministrando farmaci o droghe. Tutti questi provvedimenti possono tuttavia risultare non sufficienti per arginare il fenomeno dei culti distruttivi. Infatti essi sono ancora rivolti più ad un reato contro il patrimonio che ad una tutela della persona (Bini e Santovecchi, 2005). La tutela della persona risulta essere importante in quanto l’obiettivo finale dei culti distruttivi è il controllo mentale del soggetto coinvolto. Per controllo mentale, si intende un processo di sradicamento delle credenze precedenti di un individuo e il loro rimpiazzo con credenze nuove attraverso l’uso della persuasione coercitiva. È un processo disegnato appositamente per diminuire l’indipendenza e l’individualità della persona e far sì che acquisisca una nuova personalità conforme al culto (Cult Awareness & Information Centre, 2006). Tuttavia l’esistenza del controllo mentale è stata spesso messa in dubbio dal punto di vista scientifico (Zimbardo, 2002) ed è fonte di accesi dibattiti, da cui nascono alcuni quesiti:
Un culto distruttivo può mettere in discussione i principi di libertà religiosa dei cittadini in modo che questi si uniscano senza piena coscienza a gruppi carismatici?
Come è possibile affrontare da una prospettiva psicologica le organizzazioni con programmi religiosi o di potenziamento mentale e fare in modo che questi non influenzino media e giudizi legali?
Quale può essere il ruolo dell’American Psychological Association (APA) nello stabilire i principi per trattare quelle persone che dicono di aver subito abusi da parte dei culti o nel formare terapeuti specializzati e fornire a quest’ultimi delle linee guida? (Zimbardo, 2002).
Un valore di base ritrovabile anche in psicologia, è il promuovere la libertà umana e il fornire strumenti agli individui per esercitarla. Qualsiasi significato si voglia attribuire al concetto di controllo mentale risulterebbe in opposizione a orientamenti di questo tipo. Necessita un approfondimento il concetto di controllo mentale, infatti con questa definizione si intende un processo di sradicamento delle credenze precedenti di un individuo e il loro rimpiazzo con nuove credenze mediante l’uso della persuasione coercitiva (Cult Awareness & Information Centre, 2006). Attraverso il controllo mentale si ottiene una distorsione nella percezione, nella motivazione, nell’affetto, nella cognizione e nel comportamento (Zimbardo, 2002).
Sono stati individuati quattro tipi di controllo che possono essere esercitati, per esempio il controllo del comportamento, le tecniche di blocco del pensiero, il controllo delle emozioni e il controllo delle informazioni (Cult Awareness & Information Centre, 2006). Il controllo del comportamento si riferisce alla realtà fisica dell’individuo, ossia dove vive, quello che mangia, il suo abbigliamento e i suoi rituali. Ogni culto ha un suo set di comportamenti distintivi che caratterizza chi ne fa parte. Il pensiero viene invece controllato attraverso l’accettazione di una ideologia considerata la “verità”. Le informazioni in entrata vengono filtrate attraverso lo stesso credo e attraverso l’utilizzo di un linguaggio interno o gergo che regola ulteriormente i pensieri individuali. Un’altra forma di controllo consiste in tecniche di blocco del pensiero, che utilizzano il cantare, il mormorare, il ripetere preghiere in concentrazione e i linguaggi caricati (espressione utilizzata per descrivere il gergo che è specifico per ogni culto) per limitare la capacità della persona di valutare la realtà. Nel momento in cui nel soggetto si dovessero creare dubbi o incertezze riguardo al gruppo, egli viene istruito ad aumentare i ritmi di ripetizione di questi rituali. Vengono manipolati anche i sentimenti della persona facendo nascere nel soggetto paure e sensi di colpa. Per manipolare la paura esistono due modi: il primo è far credere che esista un nemico esterno che perseguita; il secondo consiste nel portare la persona alla convinzione che verrà messa in atto una punizione da parte del leader nel caso in cui non venga seguita l’ideologia del gruppo. I sensi di colpa vengono insinuati nel soggetto, per far sì che egli non percepisca il controllo effettuato su di lui. Questo processo è lo stesso che coinvolge le vittime degli abusi, che vengono condizionate ad incolpare se stesse di ciò che gli accade, inoltre i membri del gruppo arrivano addirittura a ringraziare il leader quando questi fa notare loro le trasgressioni. Il più potente controllo emotivo risulta essere comunque l’indottrinamento alla fobia. Essendo l’ambiente esterno descritto come persecutorio, la persona può avere reazioni di panico al solo pensiero di lasciare il gruppo, risultando così praticamente impossibile per lei concepire la vita al di fuori del culto. Il controllo delle fonti d’informazione rende talmente carenti i meccanismi necessari al soggetto per l’elaborazione della realtà da renderlo isolato dal resto della società (Cult Awareness & Information Centre, 2006). Per ottenere un controllo mentale si utilizzano alcune tecniche, quella che si tratta in questo articolo è la tecnica della manipolazione mentale, descritta da Singer e Lalich nel 1995. Gli autori suddividono la manipolazione mentale in tre fasi consecutive. Pongono come prima fase il cosiddetto scongelamento; una seconda fase definita cambiamento; ed una terza descritta come ricongelamento. L’influenza del gruppo sul soggetto può dipendere sia dalla capacità di persuadere, dalle relazioni di potere, dalle tattiche, dalle strategie manipolative del leader o del reclutatore, che non sempre sono la stessa persona, ma anche dal grado di suggestibilità del soggetto da reclutare o coinvolto. Risultano essere ricorrenti, in alcuni articoli che affrontano l’argomento, delle caratteristiche di personalità dei soggetti coinvolti, queste caratteristiche sono la suggestibilità e il machiavellismo (Loftus e mazzoni, 1998; Sherry, Hewitt, Besser, Flett e Klein, 2006).
La suggestibilità, intensa come tendenza di un individuo ad essere più facilmente indotto ad agire in un determinato modo, ad accettare una certa opinione, fede o convincimento senza una reale motivazione logica, può rivelarsi una caratteristica delle persone che possono essere coinvolte in un culto (Loftus e Mazzoni, 1998). Sfruttando questa caratteristica le persone possono essere indotte a ricordare eventi del proprio passato in modo diverso da come sono accaduti realmente (Loftus e Mazzoni, 1998).
Binet per primo introdusse il concetto di suggestibilità interrogativa all’inizio del secolo (Binet, 1900). Più tardi, nel 1938, Stern dimostrò che facendo intuire ai soggetti quale fosse la risposta desiderata ad una domanda posta, nonostante tale risposta potesse essere scorretta, essi tendevano ad accontentare lo sperimentatore (Stern, 1938).
Negli studi di Gudjonsson (1993), emerge anche la presenza di particolari caratteristiche nei soggetti più suggestionabili come, per esempio, un livello inferiore di quoziente intellettivo (Q.I.) rispetto alla media, una maggiore acquiescenza comune nelle persone con ritardo mentale, una giovane età e livelli di ansia alti (Clare e Gudjonsson, 1993). In seguito anche Loftus e Mazzoni (1998), hanno rilevato che nelle memorie di individui con un’alta capacità dissociativa è più facile inserire falsi ricordi della loro infanzia poiché tendono a dubitare delle loro capacità mnemoniche. Allo stesso tipo di suggestione sono sensibili le persone che possiedono una vivida immaginazione forse proprio a causa dell’attività immaginativa che spesso li porta ad alterare la realtà (Loftus e Mazzoni, 1998). In base al grado di suggestibilità dell’individuo e alle modalità utilizzate per suggestionarlo, si possono ottenere risposte comportamentali e reazioni psicologiche diverse. Si può perfino arrivare a perdere la fiducia nelle proprie convinzioni e interiorizzare sensi di colpa (Brett e Trowbridge, 2003).
La suggestibilità può essere individuata da persone che intendono avere un controllo su altre e utilizzata per esercitare una manipolazione mentale (Hassan, 2000).
Invece, a coloro che sono in grado di esercitare questo potere sono state associate spesso le seguenti caratteristiche: una relativa mancanza di coinvolgimento emotivo nelle relazioni interpersonali, una non dipendenza dai canoni della morale convenzionali, l’assenza di tratti psicopatologici e uno scarso impegno ideologico. Queste caratteristiche sono state incluse nel concetto di Machiavellismo (Christie e Geis, 1970). Il Machiavellismo implica una distaccata manipolazione degli altri, sdegno per la moralità convenzionale e una cinica visione della vita (Christie e Geis, 1970). Gli individui machiavellici possono essere descritti come autoritari, impersonali, diffidenti, pratici, freddi, ingannatori, impenetrabili e sfruttatori (McHoskey, Worzel e Szyarto, 1998). Gli individui machiavellici “manipolano di più, vincono di più, sono meno persuasibili e riescono a persuadere di più” (Christie e Geis, 1970, p. 312).
Alcune ricerche (McHoskey, 2001), hanno esaminato in un campione tratto dalla popolazione normale le relazioni tra machiavellismo e disordini di personalità, rilevando che tale caratteristica tende ad associarsi con tratti che possono indicare alterazioni di personalità. Tra questi si evidenziano il nevroticismo, il narcisismo, la psicopatia e caratteristiche di una scarsa capacità di adattamento (McHoskey, 2001).
Un ulteriore aspetto degli individui machiavellici sembrerebbe quello di avere comportamenti sessuali caratterizzati da narcisismo, manipolazione e ostilità, tendenti alla promiscuità e alla curiosità non sempre associate a sentimenti di soddisfazione (McHoskey, 2001). In un ulteriore studio di Sherry, Hewitt, Besser, Flett e Klein (2006), è stato rilevato che gli individui machiavellici potrebbero possedere schemi relazionali in cui gli altri vengono percepiti come aventi un potere di controllo. Spesso tali individui raccontano di essere cresciuti in un ambiente punitivo e non accogliente e ciò potrebbe spiegare la loro percezione degli altri come ostili. Gli individui machiavellici tenderebbero a rispondere alla percezione di controllo con la ribellione e con la resistenza piuttosto che con la sottomissione e la compiacenza. Inoltre questi soggetti tendono ad assumere comportamenti che siano perfetti agli occhi degli altri, quindi possono essere perfezionisti nella presentazione di sé per arrivare ad avere un vantaggio sugli altri, a dare un’immagine di forza e dominanza (Sherry, Hewitt, Besser, Flett e Klein, 2006). Parlando di culti distruttivi o sette, realtà che si rivela sempre più attuale anche in Italia, si evidenzia la fondamentale importanza degli aspetti di personalità del manipolatore e del manipolato ai fini di uno studio sulle caratteristiche sociali del fenomeno. Infatti l’appartenenza ad organizzazioni estremistiche religiose e non, coinvolge non soltanto le persone interessate, ma anche le loro reti di relazioni con la possibilità di provocare tensioni e sofferenze. A questo proposito si è pensato di affrontare un’indagine su questa tematica con l’obiettivo di approfondire la conoscenza del fenomeno. In questo lavoro il campione era composto da 60 persone suddivise in due gruppi da 30 ciascuno. Al primo gruppo appartenevano ex-leader di culti distruttivi di varia natura (religiosa, filosofica o professionale), il secondo invece era composto da persone che avevano dichiarato di non essere mai venute a contatto con culti. Per entrare in contatto con gli ex-adepti leader è stato necessario rivolgersi all’Osservatorio Nazionale degli Abusi Psicologici (O.N.A.P.) con sede a Firenze. Questa associazione ha tra i suoi obiettivi il sostegno a persone che vogliono uscire da gruppi pericolosi, da culti religiosi ad alta richiesta o da sette occulte. Il campione tratto dalla popolazione generale è stato reclutato in base al genere e all’età per renderlo confrontabile con il campione di riferimento. L’età del campione degli ex-adepti leader era compresa tra i 20 e i 71 anni con una media di anni 42 11.66 ed era composto da 16 maschi e 14 femmine. Il campione tratto dalla popolazione generale era di età compresa tra i 22 e i 63 anni, con una media di anni 42 11.49 ed era composto da 15 maschi e 15 femmine. Per quanto riguarda il grado d’istruzione all’interno del campione degli ex-adepti leader il 36.7% dei partecipanti risultava aver conseguito il diploma superiore; il 33.4% aveva conseguito titoli di studio universitari (diploma di laurea o laurea) e una percentuale pari al 23.4% aveva interrotto gli studi con la licenza media. Nel campione tratto dalla popolazione generale si notava una più alta percentuale di coloro che avevano conseguito il diploma superiore (56.6%). Per quanto riguarda il conseguimento di titoli di studio universitari la percentuale era del 26.6%, ma risultava inferiore in questo campione la percentuale di coloro che avevano interrotto gli studi alla licenza media (13.3%). Per l’indagine sono stati usati due diversi strumenti: l’adattamento italiano della scala Mach IV a cura di Galli e Nigro (1983) originariamente messo a punto da Richard Christie (1959) e uno strumento appositamente messo a punto per approfondire le caratteristiche dei culti e le relazioni degli ex-adepti leader con le rispettive reti sociali. Il Mach IV è composto da 20 item che si rifanno al costrutto di machiavellismo proposto da Christie (1959). suddivisi in tre aree d’appartenenza: Tattiche, Moralità e Visione del mondo. Gli item dell’area Tattiche riguardano le strategie messe in atto dal soggetto nell’approccio verso gli altri; quelli dell’area Moralità si riferiscono ai valori condivisi dal soggetto; e quelli dell’area Visione del mondo indagano come il soggetto percepisce le azioni degli altri e la società. È inoltre prevista una scala Totale che corrisponde all’insieme delle tre sopraccitate. Il questionario per esplorare altre aree di interesse per la ricerca e per indagare sia le caratteristiche del fenomeno culti che dei soggetti che vi avevano aderito è stato predisposto facendo riferimento sia alla letteratura sulle motivazioni e sulle conseguenze dell’adesione ai culti distruttivi sia ad una serie di domande già utilizzate dall’associazione ONAP. Il fine era quello di creare un mezzo di rilevazione delle caratteristiche delle relazioni dei soggetti sia con l’ambiente familiare e amicale sia con l’ambiente cultista; inoltre lo strumento indaga le dinamiche e le implicazioni collegate all’entrata in contatto col culto (motivazione, emozioni, durata dell’esperienza nel culto, mansioni esercitate all’interno, modalità delle richieste d’aiuto e abbandono del culto). Di questo strumento sono state messe a punto due forme differenti del questionario, una per il campione degli ex-adepti leader i cui item indagavano la loro esperienza personale all’interno dei culti e una per il campione tratto dalla popolazione generale in cui veniva richiesta la loro opinione del fenomeno relativamente ad alcune caratteristiche dei culti. A seguito dei risultati statistici condotti è stato rivelato l’esistenza di alcune differenze nelle motivazioni che hanno indotto gli ex-leader ad aderire ad un culto distruttivo e le opinioni in merito di persone che non hanno mai partecipato ad un culto. Inoltre sono state rilevate differenze tra i due gruppi in merito alle caratteristiche attribuite ai culti. Si è indagato anche sulla qualità delle relazioni degli ex-adepti con le rispettive reti sociali (famiglia e amici), prendendo in considerazione tre diversi momenti, prima e durante l’adesione e dopo l’abbandono del culto. Si è proseguita l’indagine anche nelle relazioni con i membri del culto considerando il periodo dell’adesione e il periodo che seguiva all’abbandono. Infine anche nei livelli di machiavellismo tra coloro che hanno vissuto un’esperienza di leader in un culto e coloro che non ne hanno mai fatto parte sono emerse differenze significative.
E’ possibile ritenere che le aspettative di questa ricerca siano state in parte confermate dai risultati ottenuti. Abbiamo posto la nostra attenzione sulle motivazioni che possono indurre ad una adesione ad un culto e sulle aspettative, tema che ha fatto emergere differenze d’opinione tra gli ex-adepti leader e il campione generale. Inoltre abbiamo affrontato le caratteristiche delle relazioni degli ex-adepti leader con le rispettive reti sociali in tre momenti diversi, cioè prima e durante l’adesione e dopo l’abbandono del culto. Si è dedotto che nella maggior parte dei soggetti si manifestano conflitti con la propria famiglia durante l’adesione, che in media diminuiscono dopo l’abbandono e che il riavvicinamento non avviene invece con la rete amicale. Questo ci potrebbe far pensare che coloro che escono dai culti si ritrovano isolati dal resto della società. Conseguenza questa che non dovrebbe passare inosservata da una prospettiva sociale. Infine si sono individuati tratti machiavellici più alti nei maschi appartenenti al gruppo degli ex-adepti leader rispetto a tutti gli altri partecipanti. Questo risultato potrebbe significare che i soggetti potevano avere tratti machiavellici prima di entrare nel culto, potrebbero averli sviluppati durante l’adesione, ma potrebbe anche significare che il culto espelle in qualche modo persone che manifestano tratti più alti di machiavellismo, essendo il gruppo analizzato formato da ex-adepti. Questo studio presenta non poche limitazioni, per esempio il numero limitato degli ex-adepti leader, dovuto alla difficoltà a far partecipare persone che, a causa dell’esperienza traumatica vissuta mostrano una umana diffidenza nei confronti di chi si avvicina a queste tematiche senza averne avuta esperienza diretta. L’obiettivo posto alla base di questo lavoro voleva essere quello di porre l’attenzione nei confronti di un fenomeno che sicuramente necessita di una ricerca più approfondita, per non parlare del bisogno di creare enti o strutture che possano sia individuare e combattere questo tipo di abuso che coinvolge sempre più persone, sia sostenere coloro che rimasti coinvolti in una rete cultista, ma con la volontà di uscirne spesso non riescono a farlo da soli.
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titolo: Machiavellismo ed adesione ai culti distruttivi
autore: Stefania D'Ingeo
argomento: Psicologia Sociale
fonte: Vertici Network
data di pubblicazione: 21/07/2009