mercoledì 6 maggio 2009

Caterina Boschetti – il libro nero delle sette in Italia



PREFAZIONE
a cura di
Francesco Bruno


Chi non ha mai perso la testa per amore? Chi non è mai stato disposto a tutto pur di assecondare la persona che ama? Quanti litigi in famiglia, quante discussioni per far “trionfare” un’unione che appare assolutamente perfetta! Ognuno di noi, nella propria vita, ha vissuto, almeno una volta, quest’esperienza. Abbiamo avuto un coraggio da leoni, ci siamo ribellati alle regole, abbiamo dimostrato che la libertà significa seguire una strada anche se tortuosa, credendoci pienamente. In fondo, ci diciamo, ne valeva la pena. Ora, però, alla luce della ragione, di un distacco da quello che è accaduto in passato, da una razionalità ritrovata, potremmo dire di essere stati, in quel periodo, plagiati? È questo il plagio, ovvero essere indotti a compiere azioni o ad avere atteggiamenti che normalmente non avremmo mai? In effetti sì. Ma nessuno certo punisce o porta in un’aula di tribunale due innamorati un po’ sprovveduti, uno “condizionato” dall’altro. Come sarebbe possibile? Stiamo parlando di amore, del sentimento più prezioso e pulito che l’essere umano possa nutrire, ovvero, in altre parole, del motore immobile che muove il mondo da migliaia di anni. Chi si sognerebbe mai di incolpare Cupido, Eros, il dio che fa nascere i bambini, che fa celebrare i matrimoni, che spinge madri a buttarsi nel fuoco e che fa compiere atti di un altruismo e di una compassione straordinari? Eppure la verità è che proprio questo desiderio di amore e di felicità, che conduce l’uomo alla ricerca di Dio, di una famiglia (di sangue o meno), di un appagamento personale, è diventato oggi un businnes da milioni di euro. Nel 1981, quando il reato di plagio è stato abrogato e, quindi, cancellato dal nostro Codice Penale, si parlò di un concetto eccessivamente indeterminato, che sarebbe andato a ledere la libertà dell’uomo e in particolare quella di culto, vigente nel nostro paese. Si è detto che possiamo essere condizionati dalla pubblicità, dai media, dai libri e così via; si è parlato dell’esistenza di altri reati perseguibili, come la riduzione in schiavitù (il plagium latino significava proprio questo), la circonvenzione di incapace, la violenza in genere, la truffa, l’estorsione. E così la società ci ha messo una pietra sopra, ha sostenuto che, in questo modo, era stata fatta chiarezza e soprattutto giustizia, perché gli uomini, si disse, «Sono tutti uguali». L’essere tutti uguali è un concetto di alta democrazia, non c’è che dire, condivisibile pienamente da chiunque; eppure l’avere i medesimi diritti, perché è questo che intendiamo, dovrebbe spingerci a compiere un passo in più. Ognuno di noi dovrebbe avere l’opportunità di rimanere se stesso. E se invece, anche solo un singolo uomo, viene portato ad essere così condizionato, nel suo pensiero e nel suo agire, da diventare qualcun altro, da non essere più riconoscibile, da trasformarsi in un manichino da boutique da vestire e svestire a comando o, addirittura da essere plasmato come un robot per compiere azioni a lui estranee, possiamo davvero ritenerlo uguale agli altri? Possiamo sostenere, obbiettivamente e con piena coscienza, che sia stata rispettata la sua libertà? Oggi, in Italia, ci troviamo di fronte a questa realtà, ovvero a migliaia di persone private del loro diritto di essere uomini, donne e, purtroppo, bambini, il tutto “grazie” a tecniche di condizionamento mentale e psicologico ormai conosciute e conclamate da anni. Si tratta di strumenti rubati alle stesse psichiatria e psicologia, come ad esempio l’ipnosi, applicate da individui senza scrupoli in modo sconsiderato, al solo fine di carpire la fiducia e la “fede” degli altri, riducendoli a mere pedine di una scacchiera. Non stiamo parlando di persone incapaci di intendere e di volere; chi si sognerebbe di definire tali un attore miliardario, un docente universitario, un giudice, un imprenditore di successo, che sono ai vertici nella società? La questione non è solo bianca o nera, bensì ha un’infinità di sfumature ed è per questo che il vuoto normativo italiano, in tema di manipolazione mentale, è quanto mai grave. Tali tecniche sono rintracciabili ovunque, anche sul web, e chiunque può studiarle e applicarle senza remore. Non c’è un copyright da rispettare, non vi sono password di accesso, non si tratta di codici criptati in mano solo a personale fidato. Il santone di turno, il guru della verità rivelata, il leader spirituale della porta accanto, ma anche la grande organizzazione internazionale o le religioni più riconoscibili lo sanno bene e ne fanno uso a loro piacimento. Se allora siamo tutti uguali e, quindi, a ognuno dovrebbe essere offerta l’opportunità di far sentire la propria voce, per quale motivo le vittime di questi movimenti abusanti, delle finte associazioni no profit, delle nuove fedi che non fanno male a nessuno, non vengono ascoltate mai? Perché allora la libertà di culto, tanto osannata e assolutamente legittima, non implica anche il poter uscire appunto “liberamente”, senza ritorsioni, intimidazioni e devastazioni della psiche, da esso? La risposta è soltanto una: l’assenza di una cultura in proposito. Questo termine, “cultura”, in epoca contemporanea ha assunto un significato molto riduttivo, almeno nel senso più conosciuto dalla gente comune. Esso racchiude, infatti, tutto l’insieme di materiale letterario, artistico, scientifico e tecnologico che rende una persona depositaria di conoscenza. In realtà, ritengo che sia indispensabile tornare alla sua vera e primitiva origine, anch’essa di derivazione classica, ovvero “coltivare”. In un primo momento, infatti, tale concetto era legato al mondo dell’agricoltura e alla pratica della coltivazione della terra, come bene indispensabile per la sopravvivenza della specie. Da qui è scaturito il senso più allargato, che io amo molto: prendersi cura di se stessi e, nel caso di “culto”, avere a cuore gli dei. In fondo la paidéia di Platone e Aristotele e la humanitas di Cicerone racchiudevano proprio tale assunto, ovvero l’idea di un uomo totalmente realizzato grazie all’educazione e alla formazione. Gli antichi hanno ancora molto da insegnarci, come, appunto questo binomio, che conduce al prendersi cura della nostra libertà tramite la conoscenza. Occorre, quindi, garantire a ogni cittadino e in particolare alle nuove generazioni un’informazione capillare sul fenomeno dei gruppi abusanti (religiosi o meno), tramite una sensibilizzazione radicale e senza menzogne resa efficace non solo dalla voce di esperti e professionisti che si occupano dell’argomento, come psichiatri, giuristi e rappresentanti delle istituzioni e delle forze dell’ordine, bensì grazie anche dal grido dei familiari, dei fuoriusciti e di coloro che ogni giorno vivono sulla propria pelle questa ferita che la società si è auto-inferta. Creiamo un tavolo di lavoro comune, un’opera di sinergia che permetta di studiare e analizzare tale sistema sotteraneo e micidiale, consentendo in questo modo di fornire le chiavi di lettura adeguate ai nostri politici. Il libro di Caterina Boschetti racchiude in sé tale progetto, in una coralità di opinioni e di testimonianze rivolte nella medesima direzione: raccontare bene tutto quello di cui si parla di solito in modo frettoloso e superficiale, magari solo sensazionalistico, ma senza alcun desiderio di effettiva conoscenza. Questo libro tiene invece in massimo conto proprio la conoscenza ovvero la coltivazione, la cura di noi stessi, perché solo in questo modo tutti vedremo rispettato il diritto a essere davvero liberi.

Francesco Bruno è neuropsichiatria e professore di criminologia e psicopatologia forense all’Università La Sapienza. È consulente dell’Onu, dell’Oms e della Comunità Europea, e i suoi studi sono da tempo preziosi per le istituzioni. Da anni svolge un’intensa attività di collaborazione con i media su tutti i casi di più rilevante interesse di cui si è occupato